IL CICLO DI VITA DELL’INDIVIDUO Amore part-time e a tempo determinato!

Autore di tante opere e complesse teorie, quando gli venne chiesto durante un’intervista da cosa potesse essere desunto il benessere psicologico della persona, il Dottor Freud rispose, in maniera tanto sintetica quanto convinta: dalla sua capacità di amare e lavorare. Affermazione certamente giusta per quei tempi ma che, oggi giorno, andrebbe contestualizzata prima di essere accolta in toto. Chi ha avuto modo di leggere i nostri precedenti articoli sui compiti di sviluppo del giovane adulto, ma anche chi semplicemente è attento osservatore della realtà che ci circonda, avrà ben chiaro quanto i cambiamenti socio-economici e culturali degli ultimi decenni abbiano influito su questa fase del ciclo di vita, rendendolo un periodo più lungo e complesso. Siamo nei tempi del precariato e degli alti tassi di disoccupazione per cui il non lavorare, più che dipendere dall’incapacità di mettere le proprie energie al servizio della costruzione di un’identità lavorativa, è spesso da attribuirsi invece ad un’infruttuosa ricerca, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul piano della soddisfazione professionale. Come non riconoscerne l’impatto sulla costruzione di una relazione di coppia, insieme al lavoro altro importante marcatore del passaggio alla vita adulta. Il detto “due cuori ed una capanna” ha sempre il suo fascino romantico, ma basta il pensiero dell’affitto o del mutuo da pagare (se non si vuole restare con mamma e papà, certamente!) o di tasse e spese da sostenere, per farlo svanire, a favore di quello per cui “bisogna prima stare bene con se stessi per poter essere felici con un altro”. La difficoltà a costruire un’identità lavorativa rischia di ripercuotersi così, oltre che sul proprio processo individuativo, anche sulla serenità e disponibilità a portare avanti un progetto di coppia stabile. Guardare in avanti, quando si è alle prese con contratti part-time o a tempo determinato, è spesso fonte di angoscia più che di speranza, dunque vivere alla giornata senza caricarsi di responsabilità può diventare un vero e proprio meccanismo “salvavita”. Così le relazioni, che se vissute come impegno stabile possono diventare ansiogene, si fanno sfumate, interrotte, talvolta mai realmente iniziate; e gli anni passano ma ci si sente sempre ancora giovani o poco pronti al matrimonio. Questa è certamente una delle motivazioni dell’instabilità relazionale dei giovani adulti del secondo millennio ma è parziale e non spiegherebbe perché la resistenza a costruire rapporti di coppia duraturi colpisca a prescindere dal ceto sociale e dall’occupazione. Legarsi a qualcun altro, in una società che non lo fa più sentire come necessario per essere accettati, può fare paura. Oggi ci si sente maggiormente liberi di poter scegliere di restare single o di sperimentarsi in “rapporti a tempo determinato”, mettendo in primo piano la propria affermazione personale. Epidemia del narcisismo, l’aveva definita la collega americana R. Durvasula, per cui l’individualità passa in primo piano e l’incontro con l’altro rischia di ridursi a fugace passione e appagamento dei propri impulsi. Senza mettersi in gioco, perché l’attenzione è su ciò che si può prendere dall’altro e non su cosa gli si può offrire o ci si può scambiare. Avere bisogno dell’altro, più che come spinta naturale, vista la natura sociale dell’essere umano, viene invece considerato segno di debolezza, messa a nudo delle proprie fragilità. Così spesso si accumulano nel proprio “curriculum relazionale” esperienze certamente intense, coinvolgenti, ma fragili come castelli di sabbia (altro che capanna!), poiché non fondate sui pilastri dell’impegno reciproco e di una necessaria, seppur faticosa, progettualità.

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