Giunti all’ultima tappa de il ciclo di vita dell’individuo, ci siamo poste una domanda: come si fa a non aver paura della morte? É veramente questa che ci spaventa?
“La paura della nascita e la paura della morte sono la stessa paura”, dice il medico francese Leboyer, promotore della nascita non violenta, il cui lavoro si è concentrato sul diffondere una cultura del parto più accogliente e umana e meno medica e meccanica. É grazie al suo lavoro se oggi ostetriche, ginecologi e tutto il personale presente nelle sale parto è più attento al bambino ed alla mamma prima ancora che alle “incombenze tecniche da sbrigare”. É grazie a lui se oggi i neonati vengono posti immediatamente sul seno materno, se possono stare in stanza molto più che al nido, se alcune sale parto hanno luci più calde, colori morbidi e musica dolce. La salute del bambino e quella della madre sono sicuramente una priorità ma, escluse necessità di vita o di morte, è prioritaria anche la salute emotiva del piccolo per cui nascere è già un trauma. Un passaggio forzato dal caldo al freddo, da un dentro conosciuto e confortevole ad un fuori ignoto. Numerosi gli studi che hanno dimostrato che i neonati sono capaci di riconoscere il volto ed il corpo della madre appena nati, poiché ne hanno percepito il suono ed il profumo anche stando dentro, per cui accostare immediatamente il bambino alla madre ha il potere di rassicurare. Fuori c’è mamma, la conosco già, da circa nove mesi. “E io sono arrivato a pensare che se l’uomo potesse nascere libero dalla paura, forse potrebbe andare senza paura anche incontro alla morte”, Leboyer si rivolge ai medici ed alle mamme, ma è compito di tutti noi fare in modo che i bambini non ne abbiamo paura e possiamo farlo accadere solo accogliendoli al mondo in modo morbido e caldo, rispondendo alle loro domande sul significato della morte, senza mentire dicendo che accade solo da anziani, senza usare metafore troppo fantasiose ma rispettando l’età e la maturità cognitiva ed affettiva del piccolo. Accettando il dolore e la preoccupazione senza sminuirle mai. É compito anche di noi psicoterapeuti educare ad una nascita e ad una morte non violenta, senza paura. In che modo? Mostrando che il percorso terapeutico stesso è fatto di continue nascite e di continue morti. Ogni volta che un paziente impara ad accogliere una sua fragilità, ogni volta che una barriera, una scomoda difesa viene scardinata, una parte muore per lasciar spazio a tanta vita. Può apparire una metafora sdolcinata, non lo è affatto. Chi ha superato tabù che credeva invalicabili, che si è perdonato, che ha fatto pace con il proprio passato, chi ha ricucito ferite aperte da decenni, lo sa. È morto per rinascere, più leggero, più pieno, più vivo. Allora insegniamo ai nostri pazienti a dirci addio quando la terapia volge al termine e non perché necessariamente non ci vedremo più, ma perché quel pezzo di strada percorso insieme si è concluso e se e quando ci ritroveremo saremo sicuramente un po’ diversi. Impariamo a dire addio ad un amore passato che ci tormenta, ad una vecchia storia che ancora brucia, a chi ci ha offeso, a chi non ci ha difeso. Proviamo ad imparare a vivere un po’ per volta ogni fine che si presenta nella nostra vita, così da capire che non è la morte a farci paura, ma la sofferenza. Impariamo a far “morire le storie vecchie che ci mortificano”, solo così potremmo essere padroni del presente e andremo incontro al nostro tramonto come siamo nati.
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