Sarò dura questa volta nella mia riflessione, sarò forse discordante nei confronti di qualcuno che leggerà e le mie parole potranno essere note stonate per alcuni, dissonanti sul pentagramma delle “sicurezze” materne. Lo devo a mio figlio, al suo coraggio, alla sua forza, alla sua caparbietà e un po’ lo devo anche a me stessa. Un figlio disabile non è solo un essere fragile da accudire e proteggere, non è un “peso” da portare nel migliore dei modi, non è una persona a cui sostituirsi, quando le capacità motorie sono ad un minimo livello di sviluppo. Non è una persona a cui è possibile impedire di crescere, illudendoci che il suo grado di sofferenza possa essere direttamente proporzionale alle esperienza non vissute e quindi ad una non presa di coscienza del se, innocente ma dura da accettare. Un figlio magico è un figlio come gli altri, un figlio magico sarà adulto come gli altri e se noi lo ciberemo di sviluppo ed esperienze compiremo il primo vero gesto di inclusione, facendo sì attenzione ai suoi tempi (anche emotivi), ma non rinunciando in quanto disabile. Quindi un figlio magico è come gli altri figli, non solo nel senso intrinseco di uguaglianza ma lo è nei gesti quotidiani. Un figlio magico va dolcemente “sgridato”, ripreso, senza intaccare la sua autostima. Un figlio magico va “educato” (quando è possibile, anche con strategie) alle buone maniere, per riuscire a stare con gli altri. Va reso partecipe della quotidianità familiare, della collaborazione all’interno del nucleo familiare. Un figlio magico deve, quando può, allacciarsi le scarpe, vestirsi da solo, rifarsi il letto, apparecchiare e sparecchiare una tavola e addirittura accudire un fratello più piccolo anche solo con una canzoncina o una carezza. Un figlio magico deve prepararsi lo zaino da solo, conoscere i suoi libri, avere i quaderni che hanno gli altri compagni e un diario su cui disegnare (quando può farlo). Il valore di una sola di queste autonomie è il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli, con le giuste attenzioni, con una presenza costante, ma mai invadente o invasiva, con uno sguardo di vera fiducia nelle loro possibilità. A volte basta un cenno della testa accompagnato da un sorriso. Non possiamo essere noi madri un ostacolo al loro sviluppo, diventando il primo ostacolo alla loro inclusione. Ci viene richiesta, quindi, una visione aperta sul mondo della disabilità, non solo di chi la vive ma di chi fuori la ricevere. Non serve la rabbia verso chi non capisce, non serve l’eroismo di creare opportunità ad ogni costo, serve guardare lo sviluppo di quel figlio, capire le sue necessità, fermarsi, ripartire lottare insieme, può servire anche raccontarsi ma mai imporsi come portatori di verità assolute. Lo sviluppo di un figlio è un viaggio, prima interiore e poi nel suo mondo. Non partire sarebbe un’occasione mancata. Credere che basti collocarli in un dove, bloccando o fissando il loro sviluppo fino ad un certo punto sarebbe una mancanza. Il loro sviluppo (anche solo emotivo) è continuo, come lo è il nostro, ostacolarlo potrà trasformarsi in un vero peso. Un giorno potremo essere ansiosamente felici di vederli andare a scuola da soli con i mezzi pubblici, comprarsi un cornetto nel bar, cosi come lo potremo essere per qualsiasi dei nostri figli, cosi come oggi lo sono io.
Colomba Belforte