DA MASCHERA A MASCHERA IL VALORE TERAPEUTICO DEL FINGERSI UN ALTRO DA SE’

Diciamo maschera e pensiamo a Carnevale quando “ogni scherzo vale”, in realtà l’uso della maschera risale alla notte dei tempi. Da sempre l’uomo si maschera, era solito farlo per andare a caccia o per compiere rituali magici e religiosi. Tanti sono stati i significati e le funzioni assegnate ad essa nel corso della storia dell’uomo: maschere per esorcizzare, per propiziare, per spaventare, per ironizzare, per recitare. Oggi ci travestiamo per gioco o per assecondare il desiderio dei bambini che, in questo modo, immaginano di essere proprio come l’eroe preferito. Mascherarsi, da un punto di vista psicologico, nonché sociale, assume delle sfumature interessanti. Nel pensiero comune la maschera diventa spesso sinonimo di finzione, del mostrarsi per ciò che non si è, della non autenticità. In verità, non è proprio così. Quando indossiamo una maschera, specie se creata da noi, in qualche modo ci concediamo di contattare parti che tendenzialmente non mostriamo. La maschera ci consente di essere diversi dal solito e di farci percepire in modo differente dagli altri. Ci fa sentire protetti e nello stesso tempo messi a nudo, rappresenta, in ogni caso, l’opportunità di osservarci attraverso chi ci guarda in modo nuovo. La maschera può sicuramente celare aspetti che temiamo di mostrare, ma d’altro canto, come per le due facce di una medaglia, rivela altre parti di noi, e questo favorisce e stimola l’introspezione e l’auto-osservazione. Come mi vedono gli altri? Che lato di me apprezzano? Cosa è meglio che mostri? E’ anche così, in effetti, che si costruisce nel tempo il nostro Io sociale, in una sorta di gioco di interazione e di aggiustamento tra maschere o, per non confonderci, tra parti di noi, alcune più autentiche altre meno. Gli psicologi spesso parlano di dare espressione al vero sé, alla parte più autentica di noi che non sempre riesce a farsi spazio. Questo non vuol dire essere finti, nel senso comune del termine, semplicemente alcuni aspetti del nostro essere si sono dovuti adattare alle richieste dettate dal ruolo che, per esempio, abbiamo a lavoro. Posso essere un padre che ama giocare con il suo bambino a rotolarsi sull’erba, ma non potrò sempre mostrare questo lato del mio carattere al lavoro se sono il dirigente di un’azienda; qui lascerò emergere il mio lato autoritario e magari un aspetto più severo. Le maschere ci aiutano ad immedesimarci nei vari ruoli a cui la società ci chiama, ad agire e relazionarci nel nostro ambiente di vita. Quando c’è equilibrio nella percezione di noi, del nostro essere e dei nostri sentimenti, è facile uscire ed entrare dai ruoli senza che vi siano particolari scompensi o che gli altri ci percepiscano come non autentici. Quando manca, invece, un reale contatto con se stessi, rischiamo di diventare la nostra maschera e allora ruolo sociale, lavorativo o familiare, diventa una maschera che si “incolla al volto” tanto da dimenticare che sotto ci siamo noi: psicologi che hanno problemi e si disperano come chiunque altro e spesso non riescono a trovare soluzioni, medici uguali al peggiore dei pazienti, dirigenti capaci di correre scalzi per casa con i propri bambini, bulli duri ma al tempo stesso fragili e pieni di tesori nascosti come uova…

Dott.ssa Margherita Di Maio, psicologa ad approccio umanistico e bioenergetico.
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Dott.ssa Anna Romano, psicologa-psicoterapeuta dell’età evolutiva. Per info 349 6538043