di Giovanni Gugg
Sessantadue anni fa, nel 1956, Antonio Cederna pubblicò un libro il cui titolo sarebbe divenuto parte del linguaggio comune, almeno tra chi si occupa di tutela eco-culturale: “I vandali in casa”. Nell’introduzione di quel volume compare la seguente frase: “I monumenti del passato ci stanno davanti ma, confessiamolo, non sappiamo che farcene”. I vandali di Cederna erano (e sono) coloro che distruggono l’antico, ma non solo: vandali erano (e sono) i saccheggiatori del paesaggio, gli sventratori dei centri storici, i restauratori incapaci, gli urbanisti senza dignità professionale, gli architetti pieni di presunzione, gli ingegneri irresponsabili, ma soprattutto le autorità statali e comunali inerti. Oltre mezzo secolo dopo, quelle testimonianze e denunce risultano tristemente attuali, ma nella vasta categoria dei vandali bisogna aggiungere una nuova tipologia che nel corso del tempo ha preso sempre più peso, quella dei vandali per disinteresse, per abbandono, per noncuranza.
I vandali a Mitigliano
Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio 2018 è avvenuto un furto di riggiole settecentesche dal pavimento della chiesa di Mitigliano, Massa Lubrense, finis terrae di quella Penisola Sorrentina che Cederna nel 1969 definì sull’orlo del suicidio. Questo episodio di cronaca mostra come la spregiudicatezza dei vandali-mandanti del furto possa trovare applicazione nell’impudenza criminale di vandali-ladri materiali che, a loro volta, sono in grado di agire perché il contesto è ormai di assoluta trascuratezza dei beni storico-culturali e ambientali da parte delle amministrazioni pubbliche, alle quali va dunque attribuita una quota di responsabilità di quanto accaduto.
Mitigliano è una zona di grande valore storico-archeologico e antropologico-religioso dell’estremo comune peninsulare, ai piedi del monte San Costanzo, accanto al villaggio di Termini, il cui fulcro è rappresentato dalla chiesa di Santa Maria e dagli annessi resti della sua antica abbazia. Già aggredita da una struttura in cemento armato conficcata nelle pareti esterne dell’abside, negli ultimi decenni la chiesa ha subito dei furti di ex-voto pittorici e di marmi, e il suo tetto ha avuto a lungo delle infiltrazioni che hanno reso necessaria una puntellatura interna con una fitta foresta di pali e travi. Quanto avvenuto l’altra notte, dunque, s’inscrive in un contesto altamente precario, dove l’unica forma di prevenzione era un sistema di allarme a batteria impiantato da un residente benemerito, preoccupato dopo il furto di due anni fa in un’altra chiesa lubrense.
Il fatto, come riportato dalla stampa, riguarda centinaia di mattonelle maiolicate (“riggiole napoletane” settecentesche della scuola dei Chiaiese) divelte dal pavimento e imbustate in decine di sacchi. Per una casualità – probabilmente l’arrivo di qualche vicino che avrebbe potuto scoprire i malfattori – l’intera refurtiva non è stata portata via, ma è stata abbandonata all’esterno della chiesa, così come l’attrezzo usato per compiere il reato. Al momento, dunque, mancano una cinquantina di mattonelle, originariamente poste sull’altare e nella cornice del pavimento. L’ipotesi più probabile è che si tratti di un furto su commissione, voluto da qualcuno che è al corrente del valore di mercato di quei beni e che conosce il patrimonio storico-artistico di Massa Lubrense.
Una storia di abbandoni
Come mi è capitato di scrivere altrove, quello di Mitigliano è un territorio “in attesa”, vi si respira una particolare forma di nostalgia che è pazienza secolare, che è ricordo di una speranza, di una cura che non si vorrebbe disattesa. Lo stato di abbandono e la depredazione di Mitigliano è una costante da molto tempo: nel 1685 il vescovo Nepita riferisce che la chiesa era così malandata da necessitare un restauro; nel 1773 le memorie di una controversia sulla proprietà di alcuni fondi ci ricordano che continuava a versare in condizioni precarie sia «per l’incurie de’ tempi a noi remoti», sia «per l’incursione de’ Barbari». Ancora, nel 1911 Norman Douglas scrive nel suo “La Terra delle Sirene” che nella chiesa «non molto tempo fa, una notte, si svolse una frenetica caccia al tesoro e le cantine, le mura e le cisterne furono praticamente demolite»; nel 1989, infine, la medesima considerazione è avanzata dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali in una “Relazione storico-artistica” nella quale è certificato che «il complesso costituito dal convento, dalla chiesa, dal bel cortile con alberi secolari su cui prospettano entrambi e dall’area circostante, versa oggi in condizioni di completo abbandono». In altre parole, in ognuno degli ultimi quattro secoli sono attestate crisi del sito, in una ripetitiva alternanza tra incuria e recupero.
Quest’ultimo documento, però, denunciando la distruzione di alcune mattonelle invetriate del XVIII secolo, le gravi lesioni al campanile, alla facciata e al tetto, rappresenta anche un’attestazione nuova, quella che ha motivato il decreto con cui il complesso religioso (tuttora consacrato, nonostante la chiusura e il disuso liturgico) viene dichiarato «di interesse particolarmente importante» ai sensi della Legge Bottai sulla “Tutela delle cose d’interesse artistico e storico” (n. 1089 / 1939).
I guasti ambientali circostanti e la spoliazione del patrimonio culturale sono aspetti collegati tra loro, riconducibili al progressivo abbandono de facto del sito, che riflette una diserzione istituzionale e, prima ancora, un’assenza di conoscenza. La tutela non è mai diventata custodia e questa non si è mai fatta aggregazione. La frequentazione del luogo e le relazioni interpersonali che lì si realizzavano sono diventate sempre più sporadiche e fugaci, per cui si è fragilizzato il tessuto connettivo che teneva insieme ambiente e società, lavoro e memoria, senso di appartenenza e cura dei luoghi.
È un fenomeno che va oltre Mitigliano e al di là delle singole amministrazioni comunali, attuale o del recente passato: un furto identico era avvenuto in ben due occasioni ad ottobre e a novembre del 2015, quando furono depredate le 200 riggiole settecentesche del pavimento della cappella di Santa Maria di Loreto a Metrano (il portone d’ingresso era chiuso con lo spago); prima ancora, nel novembre 2013, fu la cappella di San Sossio a rischiare di essere «alienata» per intero (perché «ridotta quasi ad un rudere», ma «con annesso terreno») tramite un’asta pubblica, poi scongiurata all’ultimo momento grazie ad una determina del sindaco. Negli anni precedenti l’Archeoclub locale mise in salvo le riggiole della cappella, oggi diruta, di Santa Maria delle Grazie a Scola, in località Marciano: riuscì a salvare 400 delle 508 mattonelle dell’Eden realizzato nel 1779 da Ignazio Chiaiese, figlio di Leonardo, autore della “Cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva”, famosissimo pavimento maiolicato della chiesa di San Michele Arcangelo ad Anacapri.
Una lezione da imparare
Cosa è successo a Massa Lubrense? Cosa ci è successo? Come è possibile che ci si esalti per una recente serie di trasmissioni televisive dedicate alla bellezza e alla ricchezza del nostro paesaggio e poi lasciare che questo stesso territorio sia così trascurato, sperperato, consumato, ignorato? Dov’è finito lo spirito di vent’anni fa, quando si realizzava una rete sentieristica straordinaria, il cui grande merito era il far riscoprire i luoghi e il ritessere un legame tra natura, cultura, società, memoria, identità? Quante volte abbiamo scritto e parlato della necessità di una razionalizzazione del patrimonio locale, magari attraverso una rete museale a cielo aperto o realizzando un percorso ecomuseale tematico da diffondere presso le scuole del comprensorio e le fiere internazionali di turismo ecoconsapevole, magari così da dare qualche chance di lavoro a tanti laureati in beni culturali?
Luoghi come la chiesa di Mitigliano o la cappella di San Sossio sono spazi identitari, relazionali e storici, ma la loro importanza non è solo nel singolo bene o nei suoi aspetti architettonici, artistici, religiosi, estetici, bensì è anche e soprattutto nel tessuto connettivo che li lega tra loro e che li incorpora nel paesaggio. Il grande attrattore di Massa Lubrense (e della Penisola Sorrentina, in generale) non è nei singoli beni o nella loro somma, bensì nella trama – unica ed irripetibile – che essi rappresentano nel loro insieme: ambiente e cultura, lavoro e immaginario, coerenza e creatività. Privare questo sistema eco-culturale anche solo di una riggiola significa mortificare il tutto, vuol dire impoverire l’intera collettività, passata presente e futura.
Nelle carenze amministrative, i vandali trionfano coi loro lucri di rapina; nell’insufficienza delle iniziative, i vandali erodono il patrimonio comunitario; nel vuoto delle idee, i vandali desertificano la nostra stessa vita. È dunque urgente tornare a concetti come custodia e cura, sviluppare un progetto collettivo fondato sull’empatia e sulla conoscenza, favorire la partecipazione dei cittadini attivi nella gestione e nella comunicazione del territorio, siglare un patto di sussidiarietà che getti le basi per fondare quella che Gregorio Arena chiama “società della cura”.
Commenti
Una risposta a “Quel che ci dice il furto di riggiole nella chiesa di Mitigliano”
Ti ringrazio per la tua interessante e bella scrittura che è pari allo scempio perpetrato.
Fa un gran male vedere come il nostro incantevole patrimonio è lasciato in completo abbandono per la completa ignoranza e disinteresse da parte di chi invece dovrebbe non solo tutelarlo ma anche amarlo.
Giacinto