Sport da combattimento e psicologia. Il vantaggio di una buona consapevolezza emozionale

 

“Si vince con la testa e le gambe. I pugni hanno un’importanza secondaria” diceva Georges Carpentier. Ma non bisogna essere stati dei noti pugili o dover praticare arti marziali per sapere quanto le emozioni giochino spesso brutti scherzi nella pratica sportiva e quanto conoscerle e gestirle possa invece favorire risultati positivi. Secondo Mayer (2008) ciò che influisce negli sport da combattimento è: riconoscere le proprie emozioni e valutare gli effetti che hanno sul proprio arousal e regolarlo; comprendere le emozioni dell’avversario per prevederne il comportamento; riuscire a mascherare le proprie emozioni per manipolare le reazioni altrui, l’autoregolazione delle emozioni, per gestire al meglio la situazione. Negli sport da combattimento come nella vita, le emozioni possono avere un valore funzionale e disfunzionale, sebbene gli studi sul rapporto tra sport e psicologia siano certamente recenti. Il concetto di intelligenza emotiva è stato definito per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come:capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni. I primi studi furono condotti negli anni ’80 (Parfitt e Hardy, 1987), valutavano il rapporto tra prestazioni sportive ed emozioni come rabbia e paura e da essi si è arrivati con Hanin (1997, 2000) alla formulazione del modello IZOF: ogni atleta ha la propria zona di confort all’interno della quale realizza la performance migliore. Affinché ad ogni incontro l’atleta si trovi nella sulla confort zone le valutazioni psicologiche sono necessarie, anzi fondamentali per una buona riuscita del combattimento. I risultati di uno studio di Szabo e Urban (2014), mostrano come gli atleti abbiano maggiori livelli di intelligenza emotiva rispetto ai non atleti, gli autori, collegano quanto rilevato alla pratica di questi sport. Da studi longitudinali condotti da Lane (2002) e Devonport (2006) si può osservare come i pugili mostrino un incremento nell’intelligenza emotiva correlato agli anni di pratica. Una delle emozioni maggiormente valutate è la rabbia e quanto e come debba essere utilizzata. E’ opinione comune associare sport da combattimento ad espressione di aggressività, dove la rabbia potrebbe giocare un ruolo incentivante. In realtà questa emozione dovrebbe essere dosata con cura e mantenuta a livelli bassi, perché sia d’aiuto alla performance (Robazza, Bertollo e Bortoli, 2006), altrimenti rischierebbe di provocare un dispendio di energie e quindi diminuire le probabilità di successo. Budd Schulberg diceva:  “il pugilato è uno sport mentale, se immaginate uno scontro per il titolo come una partita a scacchi sarete assai più vicini alla realtà che se lo paragonate ad una rissa in un vicolo”.  Inoltre, atleti che praticano sport quali karate, aikido e taekwondo, mostrano un migliore controllo dei comportamenti aggressivi che progredisce con gli anni di pratica (Graczyk et al.,2010). Non va dimenticato il ruolo fondamentale della motivazione, spesso gli atleti provengono da condizioni socioculturali svantaggiate e trovano proprio in questo sport motivazione ed autoefficacia, con relativa diminuzione dei comportamenti aggressivi. Troviamo esempio di ciò anche andando ad osservare la vita di pugili più noti, come Rocky Marciano: “la cosa a cui pensavo più spesso era la povertà che mia madre e mio padre avevano affrontato”.

Dott.ssa Margherita Di Maio, psicologa ad approccio umanistico e bioenergetico.

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Dott.ssa Anna Romano, psicologa-psicoterapeuta dell’età evolutiva. Per info 349 6538043

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