VIVERE PER LAVORARE O LAVORARE PER VIVERE!? — copia

La festività del Primo maggio, celebrata la scorsa settimana, è stata attesa da molti: un giorno di pausa che ha consentito, ad un bel po’ di persone, un ottimo ponte primaverile ma dalla temperature estive, in cui potersi ristorare e allontanare per qualche giorno dalla solita routine quotidiana. La Festa dei Lavoratori è stata istituita in molti paesi del mondo per ricordare la lotta dei lavoratori per la riduzione della giornata lavorativa, dunque quale miglior modo di celebrarla se non godendosi un momento di meritato relax! Se prendersi una pausa dal lavoro è auspicio e desiderio di molti, una quota di lavoratori fa invece molta fatica proprio quando deve staccare dalle mansioni giornaliere. Ebbene sì, il lavoro può diventare una vera e propria dipendenza! Ad essere colpite da questo male in particolare le categorie dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti poiché, a remargli contro, c’è l’assenza di un cartellino da timbrare e di contratti di lavoro dalle chiare prospettive future. Oates nel 1971 parla di  Workaholism per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente; viene classificata tra le New Addiction insieme, ad esempio, allo Shopping compulsivo e alla Dipendenza da Internet. Secondo la definizione che ne dà questo autore, il «workaholic è una persona il cui bisogno di lavorare è talmente eccessivo da creare notevoli disagi e interferenze nello stato di salute, nella felicità personale, nelle relazioni personali e nel suo funzionamento sociale». La spinta a lavorare così tanto prescinde in questi casi dalla reale necessità economica e da bisogni materiali, essendo dettata da meccanismi psicologici dal carattere compulsivo, rispetto a cui dunque non si ha controllo, e dal bisogno di allontanare emozioni negative, come ad esempio il senso di colpa e l’ansia, che emergono quando non si lavora. Dunque di lavoro ci si può ammalare, con risvolti negativi sia dal punto di vista fisico che psichico quando diventa una vera e propria ossessione. Difatti la dipendenza dal lavoro viene definita nella letteratura internazionale proprio come un disturbo ossessivo-compulsivo connotato dalla difficoltà a limitare le proprie abitudini lavorative, autoimposte, a danno delle altre sfere di vita personale. Una ricerca delle Università di Trento e Bologna pubblicata sul Journal of management ha rilevato sintomi di malessere, ansia, depressione e irritabilità in chi investe eccessivamente sul proprio lavoro. Dati simili emergevano da una ricerca norvegese che evidenziava disturbi d’ansia e disturbi ossessivi-compulsivi in coloro che avevano fatto del lavoro una vera e propria malattia. Robinson, altro autore che si è occupato di questo tema, ha indicato i seguenti criteri di identificazione del work addict: l’essere sempre molto occupati; eccesso di controllo rispetto alla riuscita delle proprie attività; tendenza alla perfezione; irrequietezza e irritabilità; mancanza di tempo per la cura di sé e per le relazioni personali; pensiero fisso e ossessivo riguardo al lavoro anche quando si è impegnati, ad esempio, in conversazioni sociali. Vari i fattori di rischio che possono esporre a queste problematiche. Un’ educazione, ad esempio, molto incentrata sulla  prestazione e sul buon rendimento, in cui l’approvazione del genitore passa attraverso l’essere all’altezza delle sue aspettative. Oppure, l’aver avuto come esempio un genitore molto dedito al lavoro e idealizzato per questo, di cui si cerca l’approvazione seguendo le sue orme. O ancora, il lavoro può costituire quella via di fuga funzionale a compensare un vuoto o una condizione di disagio che si avverte in altre sfere della propria vita, una sorta di droga che fa dimenticare le problematiche che si vivono a livello personale o familiare e che, per di più, ha il vantaggio di essere accettata socialmente. Infatti non sempre questa condizione di disagio viene riconosciuta, anzi, spesso è socialmente approvata in un mondo del lavoro che ci vuole sempre sul pezzo, produttivi, efficaci, mirati all’obiettivo e disposti ad alzare sempre di più l’asticella. E si finisce così per portarsi il lavoro a casa, a letto, in vacanza, e a misurare il proprio valore in base a quello che si fa più che per quello che si è.

Dott.ssa Margherita Di Maio, psicologa ad approccio umanistico e bioenergetico. Per info 331 7669068

Dott.ssa Anna Romano, psicologa-psicoterapeuta dell’età evolutiva. Per info 349 6538043

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